È una mattina come un’altra. L’orologio segna le sette in un paesino del Barese. Il sole primaverile batte tiepido sulla finestra della cameretta di Antonio, 10 anni, e Sara, 8 anni. Fratello e sorella – i loro nomi sono di fantasia, come quelli utilizzati per i loro genitori – hanno ancora le palpebre stropicciate dal sonno, non hanno alcuna voglia di andare a scuola. Papà Carlo li accarezza, cercando di rendere il loro risveglio dolcissimo, e riesce a farli sbucare dalle coperte. Colazione, doccia, vestiti e via, si parte. Sarebbe bello se le giornate di Antonio e Sara iniziassero davvero così ogni giorno, in autonomia, con un capriccio di troppo e qualche briciola di brioche sui grembiulini.
Antonio e Sara sono entrambi affetti da autismo grave e quell’autonomia non sempre riescono ad acciuffarla; dipende dalle giornate, dal caso, dipende da dove sono sintonizzati i loro pensieri in quel momento, se rincorrono affannosamente un’idea come fosse il loro migliore amico o si fanno sovrastare dalla rabbia, irrigidire, fino a farsi spegnere dallo spettro del silenzio. Il 2 aprile per Antonio, Sara e i loro genitori è un giorno come un altro, in cui ci si prepara con fatica a fare i conti con i cortocircuiti, gli sguardi pieni di emozioni in trappola e le reazioni imprevedibili. Per tutti gli altri il 2 aprile è la Giornata mondiale per la consapevolezza sull’autismo, un disturbo che si è triplicato negli ultimi anni, facendo registrare, stando agli osservatori americani, 1 caso ogni 36 bambini, e in Italia 1 caso ogni 70/75 bimbi, con migliaia di casi sommersi e non riconosciuti tra persone adulte. Una condizione diffusissima, caratterizzata dalla presenza di un incrinamento o spesso dalla mancanza dell’interazione sociale e della comunicazione, associati a dei comportamenti ripetitivi e a interessi ristretti, ma le cui cause restano ancora sconosciute. E per capire davvero il senso di questo 2 aprile e andare oltre lo stigma, oltre la patologia, abbiamo deciso di farci raccontare da Isa e Carlo, mamma e papà di questi due bimbi pugliesi, ventiquattro ore della loro famiglia.
“Io torno a casa quando è già orario di pranzo – spiega Isa – è mio marito a occuparsi della gestione dei bambini di mattina. Sono costretta a fare dei turni notturni massacranti per aver modo di stare con i miei figli dalle 13.30 in poi. Preparo da mangiare, li seguo nei compiti, accompagno Sara due volte a settimana dalla psicoterapeuta per fare educazione riabilitativa, mentre Antonio segue altre terapie. Prima riuscivo a farmi aiutare da mia madre, ma ora è malata d’Alzheimer e siamo noi a dover prenderci cura anche di lei, una terza bambina. I colleghi a lavoro mi considerano una privilegiata – trasale la donna – perché pranzo a casa e faccio sempre lo stesso turno notturno. Come se dover badare a due figli disabili fosse una fortuna o peggio ancora una favoletta da raccontare per far pena ai dirigenti. Nella nostra giornata tipo è tutto cronometrato, non c’è nulla di semplice, è tutto in salita. Ogni minimo problema diventa un ostacolo insormontabile: Antonio si sveglia con l’idea che quella nuvola fuori dalla finestra non vuole assolutamente vederla e io però non so come cacciarla via; me ne invento di ogni per calmarlo, ma la frustrazione in me e negli occhi del bambino aumenta, fino a che il cielo non cambia verso e con esso riusciamo anche noi a dare una nuova piega alla nostra giornata. L’affaticamento che spesso io e Carlo proviamo è dovuto proprio a questa frustrazione nel non riuscire a disinnescare il groviglio di sensazioni negative che sovrastano i nostri bambini. C’è chi dice che i problemi ce li hanno tutti, chi più e chi meno, eppure come si fa a pensare che le nostre preoccupazioni possano essere paragonabili a quelle di un genitore di un bimbo normodotato? Noi portiamo una croce diversa, molto più pesante, ma non per via dell’autismo dei nostri figli, ma a causa di una società che non ci ascolta, di una scuola che non è in grado di formare Antonio e Sara, di una sanità che a volte non riesce a coprire le nostre spese, di una comunità che non rispetta i diritti delle persone con disabilità”.
Poi Carlo tocca la spalla di sua moglie, si aggancia alle sue parole e prosegue la narrazione. “Mia moglie fa cose sovrumane, è l’amore per questi due bambini che ti fa diventare un supereroe, e forse anche la rabbia nei confronti di chi non ti capisce. Mi occupo quasi sempre dei bimbi fin dal loro risveglio, perché ho la possibilità di fare 10 giorni di lavoro in smart working al mese. Anche io sono costretto a giustificarmi con i colleghi, come se lavorare da casa fosse una concessione e non una priorità dovuta alla condizione accertata e documentata dei miei figli disabili”.
“Quello che ci è successo ci ha insegnato a vivere in un’altra prospettiva – confida il papà – La ferita dell’autismo ci ha curato, ci ha insegnato a vivere e a dare priorità a una serie di situazioni. Non sono d’accordo con tutti quegli spot che raccontano i ragazzi e le ragazze autistiche come creature da compatire; penso a quella pubblicità in cui c’è il bimbo che si abbassa gli slip in piscina in presenza di tutti e viene giustificato in quanto ‘malato’. Qualora una persona autistica dovesse denudarsi in pubblico non andrebbe giustificata in nome della sua condizione, ma aiutata, educata dai suoi genitori e da tutte quelle figure professionali che la circondano”.
Il disturbo dello spettro autistico per quanto diffusissimo resta scientificamente un mistero, soprattutto per quanto riguarda le cause. Carlo torna indietro con la mente e continua ad arrovellarsi su come sia possibile che entrambi i figli siano nati affetti da autismo, sfidando ogni roulette russa.
“Antonio aveva dei tratti comportamentali che facevano capire fin dai primi anni di vita che c’era qualcosa che non andava – racconta il papà – Sara, invece, non dava alcun segnale. Antonio non ti ascoltava, non ti guardava, non si girava quando lo chiamavi, non ti agganciava con il contatto oculare. Sara a un anno era addirittura più avanti di una bambina normotipo. Noi, vista l’esperienza dell’altro figlio, abbiamo sempre sottoposto la bambina a test continui in cui risultava più avanti della media. Eppure a un certo punto della sua crescita anche lei ha iniziato a chiudersi come un riccio, a regredire, pur non presentando stereotipie. Dopo i tre anni è arrivata la diagnosi di Sara, che oggi è più oppositiva e meno malleabile di Antonio. Nel calcolo delle probabilità 2 su 2 è una percentuale altissima di sfortuna, il fatto che sia anche femminuccia è ancora più raro. Abbiamo fatto ricerche genetiche, di Dna, ricerche preparto, sui fattori di ereditarietà, ma è risultato tutto negativo. Al momento siamo in contatto con dei ricercatori di New York, perché finché non morirò avrò la speranza di poter fare qualcosa per i miei figli. Le terapie li aiutano tanto, i bimbi fanno progressi e ogni loro piccolo passo è per noi già un grandissimo traguardo. Antonio e Sara ci insegnano a guardare oltre, a superarci. Quando siamo depressi o k.o., dalle nostre parti si dice ‘dei morti che camminano’, ci rendiamo conto che quel nostro stato fa male a loro e allora torniamo a reagire”.
Carlo è un fiume in piena. È chiaro che la narrazione della sua giornata di genitore è talmente intrisa di nodi e complessità che anche fermarsi per bere un bicchier d’acqua potrebbe trasformarsi in un combattimento. Eppure quest’uomo ci tiene a specificarlo: “Non sono un guerriero; io, mia moglie e i miei figli non stiamo lottando contro l’autismo, non è quella la nostra guerra. Lo spirito combattivo viene fuori quando i nostri diritti vengono calpestati. La battaglia non è la condizione di autismo in cui si trovano i nostri figli, la guerra è nei confronti di chi non ci rispetta come persone e famiglie. Perché, come diceva Isa, i problemi non ce li abbiamo tutti e il nostro non può essere paragonabile alle comuni preoccupazioni che la vita ci impone. La nostra croce è più pesante di quella degli altri e di certo non è la retorica, né una serie di manifestazioni del 2 aprile che possano renderla più leggera”.