Il protagonista dell’undicesimo appuntamento con la rubrica sul Bari dei baresi di Enrico Catuzzi è un romano verace che ha fatto parte del gruppo dei baresi che ha vinto la Coppa Italia Primavera nel 1980-81 e che ha sfiorato la A nella magnifica stagione 1981-82, in cui è sceso in campo 32 volte: Danilo Ronzani. Terzino fluidificante dalla folta chioma bionda, è stato impegato da Catuzzi anche come libero e mediano difensivo. I tifosi baresi ricordano le sue scorribande sulla fascia e la sua grinta. Il suo esordio è stato in Genoa-Bari del 3 giugno 1979. Ha militato nel Bari dal 1978 al 1983, in B, collezionando 91 presenze in campionato e 3 gol. Ha chiuso la carriera professionistica nel 1993 e ha continuato a giocare a livello dilettantistico tra Lombardia e Abruzzo per molti anni. È stato allenatore-giocatore in Eccellenza a Suzzara, tecnico nelle scuole calcio per dieci anni, e osservatore del Frosinone. Oggi, 64enne, vive a Pescara e fa il genitore a tempo pieno.
Il Bari dei baresi è stato qualcosa di straordinario, di magico, che resterà per sempre stampato nella mente e nel cuore dei tifosi. Ancora oggi, è ricordato come il Bari più affascinante della storia.
Allora Danilo… se ti dico Bari dei baresi, cosa ti viene in mente?
“Qualcosa di mitico. È stata la mia prima esperienza da professionista. Bellissima. Eravamo tutti amici, un grande gruppo insieme a Catuzzi, come una famiglia. A Bari sono stato per sei splendidi anni che mi hanno insegnato tanto. È stato un bel passaporto per giocare ovunque. Un ambiente caldo come Bari mi ha forgiato un buon carattere”.
Sei arrivato a Bari nel 1978, proveniente dalle giovanili del Velletri. Chi ti ha portato a Bari?
“Mi vide qualche dirigente. Fu la mia prima uscita di casa, per me che non ero mai uscito da Roma. All’inizio ero un po’ fuorisede, non abituato a certi ambienti. Dovevo scegliere tra il Milan, il Banco di Roma, che stava in C e ti dava un posto in banca, e il Bari. Prima di venire a Bari, andai a Milano per una settimana: c’era la neve, che non avevo mai visto prima, un freddo pazzesco, e me ne andai. Venni a Bari e iniziai subito con tre mesi di ritiro: un mese con la prima squadra, e poi in ritiro con la Primavera in Basilicata. Avevo un piede in prima squadra e uno e mezzo in Primavera. C’era l’allenatore Losi e mi ricordo che in ritiro feci dei numeri incredibili, ma l’unico che mi non mi fece toccare palla fu Scarrone”.
Come ti sei sentito a essere l’unico non barese della Primavera che ha trionfato in Coppa Italia?
“Bene, anche se inizialmente mi prendevano un po’ in giro, simpaticamente, perché ero romano. Dovetti imparare per forza il dialetto barese. Facevo la spola tra prima squadra e Primavera, e fu una grande soddisfazione vincere la Coppa Italia Primavera”.
Quale parola in dialetto barese ricordi con più simpatia?
“Parolacce (sorride, n.d.r.). Quando mi arrabbio, ancora oggi, mi capita d’imprecare in barese”.
Serie A sfiorata e retrocessione in C nell’anno seguente. Come te lo sei spiegato?
“Non ci mancava nulla per la A. Non credo alla sfortuna, ma in entrambe le stagioni fummo penalizzati da alcuni episodi”.
Che rapporto hai avuto con la città di Bari?
“Ho un cordone ombelicale con Bari, e molti amici baresi che vengono a trovarmi. A Bari ho fatto la mia adolescenza, la mia giovinezza, le mie prime esperienze con le donne. Prendevo gli autobus, inizialmente. Frequentai un po’ la scuola, a Bari, ma poi non ci andai più perché nell’intervallo mi si avvicinarono due ragazzi più grandi che mi riconobbero e sentii troppo la pressione. Da romanaccio, non ero abituato e mi spostarono alla scuola serale, che abbandonai perché non riuscivo a seguirla. Fino a qualche anno fa, sono venuto a Bari a giocare gare di beneficenza, e ci ritorno sempre volentieri. L’ultima volta fu nell’anno in cui allenava Camplone (ex compagno di squadra nel Pescara, n.d.r), e andai in curva nord a seguire una partita. La gente mi salutò con grande affetto”.
Ricordi qualche aneddoto divertente?
“Quando facevamo le trasferte in pullman, i baresi ascoltavano continuamente canzoni dei ‘Teppisti dei Sogni’ e le cantavano a squarciagola. A Bari girai con la mia prima auto: una Ritmo, color rosso Ferrari, targata Roma. Conoscevo tanta gente, ed entravo a Bari vecchia, che all’epoca era una zona molto difficile, senza problemi. Avevo la ragazza al San Paolo e una volta di notte, proprio al San Paolo, mi fermarono i carabinieri e mi dissero ‘ma tu sei Ronzani? Noi pensavamo che fossi qualcuno che aveva rubato la macchina’. Una volta con l’auto sfrecciai da Torre a Mare, luogo dei ritiri, sino allo stadio, passando dal lungomare: al ‘della Vittoria’ mi fermò la polizia e mi disse che se correvo in campo come con la macchina, ero un fenomeno. Mi avevano inseguito dal lungomare allo stadio, ma non mi accorsi di nulla”.
In quale zona della città hai vissuto? C’è un posto al quale sei più legato?
“Ho dormito due anni nello stadio, in un camerone grande con un freddo incredibile. Avevo la finestra davanti a uno spiazzale in cui di notte si appartavano le coppiette e spesso mi svegliavo di colpo perché facevano a botte con i guardoni che spesso venivano beccati. Poi ho vissuto a Palese, vicino allo stadio e a Poggiofranco. Sono legato a molti posti: dalla Madonnella a Japigia, dal San Paolo a San Girolamo, dove avevo gli amici al bar. Alla Madonnella ho un caro amico. Amavo il mare di Monopoli”.
Che rapporto hai avuto con Catuzzi?
“Ottimo. Come allenatore è il numero uno ancora adesso. Una persona splendida. Cercava sempre di ripararci dagli attacchi dei media. Ci proteggeva molto. Quando andò via da Bari, noi ragazzi andammo a casa sua, a Palese, per salutarlo e piangemmo. Fu mio allenatore anche a Pescara e a Mantova, dove intercedetti per farlo ingaggiare. Conoscevo la sua famiglia, lo ricordo con affetto. Sono stato dieci anni con lui in varie città. Da allenatore giovanile, ho sempre portato il suo credo”.
Ti sei mai sentito a rischio, in difesa, con gli schemi super offensivi di Catuzzi?
“No. A Bari eravamo matti pure noi, nel senso buono, ed era tanta la voglia di giocare. I risultati tattici furono straordinari. ‘Chi attacca prima, attacca sempre due volte’, diceva”.
Dimmi il tuo ricordo più bello e quello più brutto con il Bari…
“Il più bello fu in una gara in casa, quando ogni volta che toccavo palla, la gente mi fischiava perché mi dava la colpa della sconfitta a San Siro col Milan. A fine gara, invece, mi applaudirono tutti, e quando passai sotto la tribuna mi dissero che ci avevo messo il cuore. Piansi dall’emozione. Il più brutto fu la retrocessione in C con Radice”.
Hai avuto un soprannome nel Bari?
“Mi chiamavano ‘cavallo pazzo’. A Corrieri, che era introverso, per scherzare lo chiamavo ‘busta gialla’, che a Roma significa ruffiano. E lui oggi, quando ci sentiamo, chiama me in quel modo. Belle cose”.
Hai lasciato Bari nel 1983, passando alla Sambenedettese…
“Sì, a ottobre, perché Bolchi in C non mi faceva giocare molto, e poi subii le parole di Matarrese che per spronarci ci disse che dovevamo vincere a tutti i costi il campionato altrimenti ci avrebbe cacciati via tutti. Col senno di poi, non sarei andato via”.
Da bambino cosa sognavi di fare da grande?
“Ho avuto la fortuna di fare quello che volevo. Venivo dalla strada e d’estate facevo il barista. Ho fatto il bagnino a 11 anni. Belle esperienze”.
C’è qualcuno dei baresi con cui andavi più d’accordo?
“Andavo d’accordo con tutti. Io e De Trizio siamo nati nella stessa data e Caffaro un giorno dopo, ma festeggiavamo il compleanno insieme”.
Il tuo gol più bello con la maglia del Bari?
“A Verona, dove pareggiammo 3-3 e subimmo ingiustizie arbitrali. Ricordo una gara particolare: lo splendido 2-2 con la Juventus in Coppa Italia ad agosto 1983. Feci un’entrata dura a Paolo Rossi, e Tardelli e Gentile mi dissero ‘ragazzo, fai troppo il furbo!’. Io li mandai a quel paese e dopo poco mi fecero un’entrata da farmi quasi saltare in aria, e mi replicarono che facevo il furbo”.
A 57 anni sei tornato in campo in Prima Categoria…
“Sì, posso dire di non aver praticamente mai smesso di giocare. I ragazzi in campo erano sbalorditi e uno mi disse ‘mia madre ha gli anni tuoi e non si muove neanche a morire!’ (sorride, n.d.r.). Mi sono divertito tanto. Aprii un pub a Mantova negli anni ’90 perché volevo vivere lì, e continuai a giocare a livello dilettantistico. Poi tornai a vivere a Pescara, dove sono nati tutti i miei figli. Ancora adesso ho la testa del 15enne, ma ne ho 64”.
Cosa fai oggi?
“Mi dedico completamente a mia figlia, che ha quasi 15 anni. Le faccio da mamma e da papà. Pensa che quando allenavo i ragazzini, in panchina spesso avevo mia figlia in braccio, che neanche camminava. Di cavolate ne ho fatte tante, ma non rinnego niente”.
La tua cavolata più grande fatta a Bari?
“Quando arrivai nel ’78, in ritiro a Ponte di Legno, una sera feci aprire la discoteca. Santececca, il giorno dopo, si arrabbiò molto. Una volta Santececca mi vide con la sigaretta e mi mandò una settimana con le giovanili”.
Segui il Bari?
“Gli amici baresi mi aggiornano, e mi dispiace che si trovi in questa situazione. La città merita la A. Un pubblico come Bari lo trovi da poche parti. Giampaolo lo conosco ed è una grande persona, e spero possa dare una bella svolta. In cinque gare non puoi fare miracoli, ma a livello motivazionale si può fare tanto. Ci salveremo, retrocedere è sconveniente per tutti. Gli faccio un grande in bocca al lupo”.
Il ricordo più bello della tua carriera?
“Tutti belli. A Pescara sono stato tre anni e siamo andati in A con tuo padre (Gigi De Rosa, n.d.r.). A Bari sei anni bellissimi”.
Hai un rimpianto?
“A Pescara feci un brutto gesto a Galeone che mi precluse la serie A. Avevo il carattere che mi ha permesso di fare il calciatore, ma mi ha anche penalizzato”.
Il tuo primo stipendio?
“Papà faceva l’operaio e mi dava 4mila lire a settimana, che se ne andavano per le sigarette. Matarrese mi chiese quanto volessi e io non sapevo che rispondergli. Mi diede vitto e alloggio e 150 mila lire al mese, più dieci viaggi in aereo per andare a trovare i miei a Roma. Fui contentissimo, avevo diciotto anni. Fui il primo acquisto di Matarrese”.
Il tuo piatto preferito barese?
“La pasta coi ricci di mare, e il pesce. A Bari ho imparato a mangiare il crudo di mare. Sono un ottimo cuoco e spesso faccio patate riso e cozze, che mi piace tantissimo. Sono ancora legato a Bari”.
Il Bari dei baresi è irripetibile?
“Non mi piace il calcio di oggi, è troppo business. Noi giocavamo soprattutto col cuore. Eravamo molto attaccati a quello che rappresentavamo in quel momento. La maglia era molto importante. Il calcio oggi è diverso”.