Quindicesimo appuntamento con la rubrica sul memorabile Bari dei baresi di Enrico Catuzzi. Questa volta ci concentriamo sul mediano difensivo, dalla folta chioma bionda, che ha giocato da titolare nella prima parte della frizzante stagione 1981-82: Leonardo Bitetto, per tutti Dino. Classe 1959, centrocampista difensivo a volte impiegato nel ruolo di libero, è stato uno dei baresi più ‘adulti’ di quella fantastica stagione, nonostante i suoi 22 anni di età. Cresciuto nel settore giovanile del Bari, con i galletti ha collezionato 52 presenze in campionato (17 presenze nel 1981-82) in tre stagioni di serie B (1977-78, 1980-81, 1981-82), mettendo a segno un gol. Ha vestito anche le maglie di Matera, Siracusa e Cavese, per due stagioni di B, prima di concludere la sua carriera calcistica, a soli 24 anni, a causa di un brutto infortunio. Ha svolto il ruolo di allenatore in tante squadre tra serie C/1 e Dilettanti, ottenendo promozioni e campionati vinti con Manfredonia, Giulianova e Melfi. Oggi, 65enne, continua a fare l’allenatore ed è reduce dalla fugace esperienza col Barletta, in serie D, conclusa con la rescissione contrattuale dopo un mese e mezzo circa alla guida dei barlettani.
Il Bari dei baresi è stato qualcosa di straordinario, di magico, che resterà per sempre stampato nella mente e nel cuore dei tifosi. Ancora oggi, è ricordato come il Bari più affascinante della storia.
Allora Dino… parlami del Bari dei baresi…
“Mi viene in mente quel famoso senso di appartenenza che avevamo non solo nel cuore, ma anche nelle gambe e nei piedi. Era uno spogliatoio in cui cercavamo, da subito, di creare quella che adesso si chiama empatia. Un gruppo fatto di noi baresi, con il nostro dialetto, con le nostre frasi fatte. Era un continuo sfottò”.
Quale termine useresti per descrivere quel bel Bari?
“Solidarietà. Non solo per l’unità di gruppo, ma la solidarietà che riuscivamo ad avere anche da tutti gli ‘stranieri’, cioè da quelli che non erano di Bari. Noi riuscivamo a integrare loro”.
A che età sei entrato nel Bari?
“Mio padre allenava la Grumese, e io dall’età di dodici anni ho fatto parte delle giovanili del Bari con mister Gilberto Schino, colui che mi ha formato. In Primavera ho avuto altri allenatori. Ci allenavamo e giocavamo al campo ‘Rossani’, dove adesso c’è il parco pubblico”.
In quale zona di Bari sei cresciuto?
“Nel quartiere Libertà, precisamente in corso Mazzini”.
Raccontami un aneddoto divertente di quel gruppo di baresi…
“Ricordo con simpatia, ma anche con un po’ di vergogna (sorride, n.d.r.), quando nel ritiro ad Acquapendente, un giorno eravamo tutti nelle stanze, e sentimmo un piccolo botto all’esterno dell’hotel, vicino a Catuzzi e a Regalia che si erano intrattenuti. Ci accorgemmo che dall’alto era arrivata una busta d’acqua: Catuzzi salì furente in tutte le stanze, ne butto giù tre o quattro, ma non scoprì mai l’artefice di quello scherzo. Mi fa sorridere, ma mi imbarazzò non poco”.
Avevi un soprannome nel Bari?
“Billy, in riferimento al personaggio di un fumetto dell’epoca. Da piccolo mi chiamavano anche ‘Haller’, un calciatore tedesco al quale somigliavo”.
Nella magica stagione 1981-82 hai giocato da titolare per quasi tutto il girone d’andata, poi sei finito in panchina. Perché?
“C’è stata una scelta tecnica. Al mio posto ha giocato Onofrio Loseto. Facevo il mediano, sempre davanti alla difesa. Avevo caratteristiche diverse da Onofrio: avevo più visione di gioco e piedi buoni”.
Come hai vissuto quella scelta tecnica?
“L’ho accettata serenamente. L’ho presa come tutti i giocatori dovrebbero fare perché le scelte tecniche vanno sempre rispettate, e poi per me fu da stimolo perché continuai a dare il massimo, e fui premiato l’anno dopo quando andai a Cava de Tirreni e feci un grande campionato di serie B”.
Con il gioco ultra offensivo di Catuzzi, ti sei mai sentito a rischio?
“No. Con lui, no. Sapeva trasmettere con grande efficacia le sue idee di gioco, completamente diverse rispetto a quelle del momento, coi due difensori laterali che partecipavano sempre all’azione offensiva. La squadra era sempre molto corta, e correvamo tutti. Era molto bravo nel renderci partecipi alle sue idee innovative”.
Ricordi il tuo esordio in maglia biancorossa? Come hai vissuto quel bel momento?
“Fu grazie a mister Santececca, che quell’anno arrivò primo al corso di Coverciano. Ero il capitano della Primavera e feci il ritiro col Bari di Losi e Santececca, che era il suo secondo. Esordii a Cesena, ed è un ricordo indelebile. Ero tranquillo, un po’ agitato quando il mister Santececca, che subentrò a Losi, disse la formazione, ma sono stato sempre calmo e freddo nelle mie cose”.
Oltre ai famosi torti arbitrali subiti, a quel Bari di Catuzzi è mancato qualcosa per la serie A?
“Eravamo pronti per la A: un gruppo forte e molto unito, guidato più che bene da Catuzzi. È mancato qualche guizzo in più, ma quella decisione di Agnolin compromise tutto. Poi, ad altre squadre è andata meglio di noi”.
Che rapporto avevi con Catuzzi?
“Buono. Tutti avevano un buon rapporto con lui. A volte aveva delle esternazioni molto forti, però era veramente fantastico. Andavo d’accordo con tutti, ma negli anni sono rimasto più legato a Tavarilli, anche perché siamo della stessa età”.
Qual è per te la partita più bella del Bari dei baresi?
“Un 3-3 ad Ascoli, in Coppa Italia: perdevamo 3-0 e ribaltammo la gara negli ultimi dieci minuti grazie soprattutto a tuo padre (Gigi De Rosa, n.d.r.), che fece due grandi assist per i gol di Bagnato e Iorio. Quella gara mi è rimasta in mente perché sono gare che si vedono spesso oggi, ma all’epoca era inusuale e recuperare tre gol negli ultimi dieci minuti era una grandissima cosa”.
Quale avversario ti ha dato più filo da torcere?
“Ero intuitivo e sapevo intercettare gli avversari, ma ero un po’ lento e di conseguenza soffrivo i giocatori veloci. Juary, che incontrai in Coppa Italia contro l’Avellino, era davvero una scheggia e mi è rimasto sempre in mente”.
Nella stagione successiva hai affrontato il Bari da avversario, con la maglia della Cavese. Il Bari, a fine anno, retrocesse clamorosamente in C. Come te lo sei spiegato?
“Quel Bari non era male. Ricordo che i rigori sbagliati furono decisivi. Sono annate, e con l’esperienza ho capito che nel calcio bisogna saper accettare tutto. Mi rifaccio anche all’attuale Bari, che nella stagione precedente ha sfiorato la A, mentre è andata male in questa appena conclusa. Bisogna saper accettare”.
Dimmi il momento più bello vissuto con la maglia del Bari…
“L’unico gol che ho realizzato con il Bari: contro il Pescara, ci fu un passaggio verso il centro di Frappampina e io, che arrivai in corsa, da trenta metri riuscii a mettere la palla sotto l’incrocio dei pali. Da mediano difensivo e da ex libero, fare un gol da trenta metri fu una bella soddisfazione”.
E il momento più brutto?
“Ho vissuto poco il calcio perché ho smesso di giocare a 24 anni”.
Vuoi parlarmi dell’infortunio?
“Nella gara contro il Campobasso, grazie alla mia buona visione di gioco, riuscii ad arrivare in volo per anticipare un centrocampista avversario, che mi toccò la gamba d’appoggio e mi fece cadere con tutto il peso del corpo sul ginocchio. Purtroppo subii la rottura del ginocchio, che non riuscii a ristabilire completamente perché all’epoca i tempi di recupero erano molto più lunghi”.
Come hai vissuto quel terribile momento? Ci pensi ancora oggi?
“Certo che ci penso ancora oggi, anche perché fu l’anno dopo il mondiale ’82 vinto dall’Italia. Quella vittoria dette ancora più risalto al calcio italiano, anche se in serie B con la Cavese ho raggiunto il massimo del mio livello calcistico, vincendo anche a San Siro una partita contro il Milan, da buon milanista”.
Cosa hai fatto quando hai smesso a 24 anni?
“Mi ero appena sposato ed ero appena diventato papà. Ho dovuto fare altri lavori come rappresentante d’abbigliamento e poi l’assicuratore per tanti anni, senza mettere da parte il calcio da allenatore. Dai 27 ai 32 anni ho allenato le giovanili del Bari, e poi ho preso il via da allenatore”.
Descrivi le caratteristiche di Dino Bitetto…
“Oltre alle caratteristiche tecniche, educazione e rispetto in assoluto. Due paroline magiche, non solo nel calcio ma anche nella vita”.
Hai un rimpianto nella tua carriera?
“Il mio rimpianto più grande è quello dell’intervento al ginocchio, perché mi hanno fatto un intervento diverso rispetto a quello che mi avrebbero dovuto fare. Non è facile sopportare di smettere di giocare a ventiquattro anni. Ti toglie la vita e la passione, che grazie al cielo ho mantenuto”.
Segui il Bari? Che idea ti sei fatto?
“Un’annata tormentata e soprattutto disordinata, perché dall’inizio sono arrivati giocatori alla spicciolata e troppi che sapevano già di andare via. Si è cercato di porre rimedio, ma non sono arrivati calciatori in grado di creare quell’alchimia necessaria allo spogliatoio. Non do colpa agli allenatori. I giocatori non mi sono piaciuti per come si sono comportati: non si può decidere sull’esonero di un allenatore. Bisogna avere rispetto del lavoro che si fa, e spesso loro non si accorgono di essere dei privilegiati. I calciatori, a volte, ne approfittano troppo”.
Il Bari riuscirà a mantenere la categoria?
“Da tifoso me lo auguro. Razionalmente, invece, pongo il punto interrogativo, un po’ perché la Ternana è avvantaggiata rispetto a noi (in caso di parità ai playout, si salverebbero gli umbri, n.d.r.) e poi perché il Bari dovrebbe fare un gol in più dell’avversario, pur avendo uno dei peggior attacchi della B. La fiducia, però, non manca mai”.
Hai vinto vari campionati da allenatore tra C e D. Come mai non sei riuscito ad allenare in B o, per esempio, il Bari?
“Sono molto schivo e probabilmente non mi sono saputo relazionare con gli addetti ai lavori. Poi, magari non hanno intravisto in me la possibilità di poter allenare in B. A Bari spesso viene messa da parte la meritocrazia, e ho notato che tra i baresi si pensa prima di tutto che l’altro non debba andare avanti. Ma non solo nel calcio, anche nelle altre professioni. A Bari, per esempio, abbiamo avuto l’esperienza di Sciannimanico (ex calciatore e allenatore del Bari nel 2001-2002, nato a Loseto, n.d.r.) che fu esonerato dopo poche giornate, in un periodo in cui il Bari faceva fatica a esonerare allenatori. Mi viene in mente quel famoso detto di San Nicola…”
Oltre a fare l’allenatore, fai qualcos’altro?
“La curiosità non mi manca e mi aggiorno continuamente sia guardando partite e sia visionando le piattaforme web. Voglio abbinare la mia esperienza alle nuove metodologie di lavoro”.
La tua recente esperienza da allenatore a Barletta non è andata benissimo…
“Si è ripetuta un po’ la situazione che si è creata quest’anno nel Bari. Oggi è sempre più difficile trovare educazione e rispetto, e d’accordo con la società mi sono messo da parte dopo neanche un mese e mezzo. Non c’erano più le condizioni per poter avere da parte dei calciatori quell’interesse a migliorare. Il rispetto è fondamentale. Non mi era mai capitata una cosa del genere”.
Il Bari dei baresi è irripetibile?
“Credo proprio di sì. Oggi si fa fatica nelle categorie importanti a fare giocare un giovane italiano, figuriamoci avere sei sette titolari, come il nostro Bari, della stessa città”.